Non avrà un nome melodioso, ma la sedia di polipropilene ha comunque fatto carriera. Dalla sua introduzione sul mercato nel 1964 ne sono stati venduti più di 14 milioni di esemplari (e probabilmente altrettante imitazioni).
Da allora non è più possibile immaginare scuole, mense, centri socioculturali e sale d’aspetto senza il progetto impilabile di Robin Day con il caratteristico schienale curvato.
Nel 1968 la sedia di polipropilene è stata usata per lo stadio olimpico in Messico. La variante con i braccioli (1967) è nota ai passeggeri provenienti dai terminal dell’aeroporto di Heathrow.
Ancor oggi la Hille International produce 500.000 unità all’anno della versione originale, dal nome poco noto Polyside. Presentato al pubblico nel 1964, questo modello e stato la prima sedia di polipropilene al mondo fabbricata in serie mediante il processo di stampaggio a iniezione.
II PP, che oggi è ormai di norma nell’industria del mobile, a quei tempi era un materiale nuovo, leggero, affidabile, robusto, antigraffio e resistente al calore.
Dopo quattro anni di progettazione, Robin Day è riuscito a trasferire come per incanto tutte queste qualità in una scocca di plastica non imbottita.
Impresa tutt’altro che facile, dato che da una parte la sedia doveva essere abbastanza sottile per permettere alla massa di materia plastica di asciugare rapidamente nello stampo, e dall’altra abbastanza robusta per soddisfare le esigenze di stabilità. Il risultato sembra ottenuto con facilità e senza fatica, proprio come desiderava Day, uomo incline alla modestia.
La scultorea sedia dalla linea curva dissimula il suo carattere forte: nel suo design sono confluite le più recenti conoscenze ergonomiche.
Al di sotto della scocca sono inserite delle guide nelle quali le gambe di acciaio tubolare piegato si congiungono invisibilmente.
Non a caso la sedia ricorda quelle non imbottite di Ray e Charles Eames, prodotte all’epoca da Herman Miller in poliestere rinforzato con fibra di vetro.
Aziende americane come la Herman Miller e la Knoll hanno costituito per la Hille, fondata nel 1906, un incentivo allo scambio di riproduzioni storiche con mobili contemporanei.
A questo scopo, dal 1950 si stabilisce una stretta collaborazione fra le aziende e Robin Day, formatosi al Royal College of Art.
La realizzazione della sedia in polipropilene viene resa possibile grazie all’appoggio incondizionato della Hille, investimento rivelatosi poi molto produttivo.
Con la Polyprop, cosi veniva chiamata la sedia, Hille e riuscito ad affermarsi come il produttore di mobili più innovativo dell’inghilterra e Day, nato nel 1915, ha realizzato ii sogno che nutriva fin dagli anni della guerra: un buon design a prezzi abbordabili.
Al contrario della sedia degli Eames, il suo progetto in PP era infatti decisamente a buon mercato.
Anche grazie al fatto di poter essere fornita a richiesta di vari piedistalli, imbottiture ed elementi di raccordo, la sedia ebbe un successo tale per cui Day ne progetto altre versioni ancora: la serie E, di diverse grandezze, per scuole e asili (1971) e la sedia sportiva Polo (1975), la cui scocca era dotata di fori per permetterne l’utilizzo all’aperto.
L’aspetto anonimo e sobrio di cui Day era cosi orgoglioso ha però dato origine anche ad un atteggiamento di rifiuto nei confronti di questa sedia.
Negli anni ’80 molti suoi connazionali la associavano con l’inefficienza del sistema sanitario e lo squallore delle scuole pubbliche.
Nei forum su Internet si trovano invettive contro la forma inflessibile e indistruttibile di questa sedia. Ma essa viene anche celebrata come uno dei grandi classici del dopoguerra. E Tom Dixon sarebbe d’accordo.
Come design director di Habitat, nel 1999 ha deciso la riedizione della versione coi braccioli in nuove tonalità di plastica traslucida, motivandola con le seguenti parole: “Questa sedia è ancora moderna come il giorno in cui ha fatto ii suo ingresso sul mercato”.
La Polyprop è una star che non si da arie: una foto scattata in Botswana negli anni ’80 mostra Robin Day su una canoa equipaggiata con le scocche della Polyprop. E il suo essere ordinaria a renderla cosi straordinaria.