Aldo Rossi, achitetto, nelle sue metafisiche architetture come nei suoi arredi, trasfigura nel presente frammenti di un passato di scala minuta, quasi un minimo comune denominatore per un linguaggio essenziale.
Aldo Rossi cerca risposte nel passato, selezionando archetipi ancora condivisi.
Quelle che Rossi disegna sono tracce che restituiscano allo spazio la profondità del tempo, piccoli monumenti di una storia quotidiana: un timpano neoclassico, il tavolo di una casa di campagna, la cabina da spiaggia di tanti lungomare italiani.
Nei termini di questo confronto che si definisce l’identità della ricerca postmoderna, priva oramai di certezze e tutta tesa a interrogare un presente sospeso fra un passato perduto e un futuro ancora da inventare.
In un periodo trascorso all’Isola d’Elba (agli inizi degli anni ottanta) Aldo Rossi realizza alcuni disegni, alcune impressioni che si concretizzeranno in armadi (o costruzioni) realizzati in pochi esemplari dalla ditta Longoni.
“In realtà mi ero semplicemente accorto del carattere particolare e universale delle cabine poste sulle spiagge.
Non solo dell’Elba. Il problema non è quello di vedere ma di guardare fino ad appropriarsi dell’immagine, e attraverso l’immagine della cosa.
Così ho incontrato migliaia di cabine, dalle spiagge del Mediterraneo, alla California, all’Argentina.
E con piacere ho visto ripetizioni della mia cabina, ma non le considero copie, anzi è come rivedere le cose e riscoprirle con sorpresa.
La cabina è una piccola casa: è la riduzione della casa, è l’idea della casa.
Il mio amico Bruno Longoni la costruisce ora e ancora la reinventa come può farlo solo la manualità, legata alla fantasia, dell’artigiano.
Ho osservato le sue piccole costruzioni ancora con sorpresa. Se diverse persone fanno la stessa cosa – dice un detto popolare – non è la stessa cosa.
Ma la cabina di Bruno Longoni è la più simile a quella che io immaginavo.”
“Un mobile è un misto: la forma, la funzione, il materiale e tante belle cose che si attribuiscono all’architettura.
I mobili poi sono oggetti d’affezione o almeno io credo debbano esserlo: il mito del do it yourself si è sfasciato insieme ai brutti oggetti che produceva.
Così l’artigiano ha riacquistato la propria autonomia e la propria virtù, ammesso che l’avesse mai perduta. Sono solo alcune considerazioni che mi suggeriscono i mobili di Bruno Longoni.”