La sedia LightLight è stata progettata da Alberto Meda per la ditta Alias nel 1987.
Questa sedia in fibra di carbonio è un peso piuma di meno di due chilogrammi e nasce dalla ricerca sperimentale sulla tecnologia dei compositi con l’intento di verificarne le possibilità d’utilizzo in oggetti d’uso domestico.
I materiali compositi, come un sandwich con il cuore in nido d’ape di Nomex e pelli di rivestimento in tessuto unidirezionali di carbonio, o Kevlar, sono generalmente utilizzati in ambito aerospaziale e dei veicoli da competizione per realizzare manufatti resistenti e leggeri.
La sedia è l’occasione per Alberto Meda di mettere alla prova le prestazioni strutturali di questi materiali, in una struttura che viene sollecitata direttamente dal peso dell’utente.
L’obiettivo del progetto è quello di contenere al massimo il peso, ed è per questo che le sezioni della struttura sono ‘tirate all’osso‘.
La comune idea di solidità e stabilità, creatasi nel tempo da una tradizione costruttiva basata sulla tecnologie del legno, del metallo e della plastica, si scontra con l’esilità della struttura di questa sedia.
Il risultato formale non è condizionato da un linguaggio predeterminato ma dall’obiettivo di indagare il limite del possibile.
Nonostante l’impiego di questi materiali e la tipologia del progetto, l’industrializzazione ha implicato processi ampiamente artigianali.
Nel libro “Il Design Italiano 1964-1990” edito da Electa, Andrea Branzi descrive così Light-Light:
“A monte, era stata fatta la scelta di realizzare una sedia che pesasse un chilogrammo. Dato questo vincolo, l’utilizzo di un composito avanzato [la fibra di carbonio] diventava tecnicamente necessario.
Così come diventava tecnicamente necessaria la sua immagine: l’orditura dei tessuti, l’andamento delle giunzioni, le curve e gli ispessimenti zoomorfi assumevano un valore e una legittimazione che era di nuovo la tecnica a dare.
Ma, al contrario, nessuna ragione tecnica o pratica poteva motivare la scelta di fondo di fare una sedia così leggera.
Essa era invece l’espressione di una ben precisa scelta estetica.
O meglio, era la mossa iniziale di una strategia progettuale fondata su motivazione estetiche: darsi (autonomamente, come libera scelta estetica appunto) dei vincoli fortissimi. Porsi in condizioni estreme al fine di far parlare i materiali e di creare meraviglia.”.